Forte di Pozzacchio. Accogliere il silenzio

Paolo Vitali

Avvicinarsi

C’è neve e fa freddo. Ci lasciamo alle spalle le poche case della frazione di Dosso di Valmorbia e procediamo in direzione nord, lungo il sentiero che si inerpica sul fianco della montagna, verso lo sperone di roccia che incombe, severo, sull’abitato. Salendo la vista si apre sull’intera Vallarsa: sotto di noi il profondo taglio scavato dal torrente Leno, intorno a noi imponenti rilievi – il Corno Battisti, i monti Lessini, il Pasubio, lo Zugna e, sull’altro versante, le Piccole Dolomiti –, nomi ingombranti di una memoria non pacificata, luoghi sospesi tra il tempo della storia e il non tempo della loro geologia.

Una volta arrivati nel bosco, complice la neve, si perdono gli ultimi, rari, rumori di presenza umana e si viene avvolti dall’atmosfera immobile di una natura senza tempo. A terra impronte di animali. Qui sembra che non sia mai successo nulla o quasi. Una sensazione che neanche il palesarsi, tra i rami degli alberi spogli, di evidenti segni dell’intervento dell’uomo, riesce completamente a far svanire.

Il luogo dove ci stiamo dirigendo non è solo una maestosa altura che domina la valle, una grande gobba di calcare grigio a picco sul torrente, ma l’imponente rovina di una macchina da guerra incompiuta, un intero promontorio scavato e modificato da brecce e aggiunte artificiali: ciò che resta del Forte Pozzacchio (Valmorbia-Werk).

Qui, un secolo fa, passava il confine, finiva l’Italia e iniziava l’Austria-Ungheria. Qui, su questi monti, un secolo fa, il silenzio dei boschi era squarciato dalle esplosioni dei colpi dei mortai e delle granate, dei cannoni e delle mitragliatrici. Qui, per mantenere le posizioni, “per conquistare un palmo di terra”1 si moriva a decine, a centinaia.

Natura / artificio

Verso quel luogo solitario e silenzioso, quel tutt’uno di natura e artificio, bastione della linea difensiva austriaca (Widerstandlinie) che sbarrava l’accesso alla via per Rovereto, ci conducono il professor Collotti, autore, insieme al collega Pirazzoli, del progetto di recupero della struttura e l’architetto Aita, direttore dei lavori. “Gli ingegneri austriaci lavoravano sempre con la natura e non contro di essa” – commenta il professore salendo, per farci intendere lo spirito con il quale il forte fu costruito e quello con il quale avrebbe dovuto essere affrontata la questione del suo recupero.

Il grande masso calcareo che ora finalmente si para davanti a noi nasconde i resti di qualcosa che era stato progettato per non essere visto. E infatti, anche a ridosso del forte, non è ancora possibile rendersi conto della sua vera entità e articolazione. A svelarla provvedono i segni del nuovo intervento, lievi indizi colorati di una presenza segreta ma non più ostile: quattro piani scavati nel vivo della roccia, “titanico lavoro di artificializzazione della natura”2 frutto della più avanzata ingegneria bellica della Prima guerra mondiale.

È difficile, di fronte a ciò che sta davanti ai nostri occhi, districarsi tra diversi sentimenti: dobbiamo ammirare i resti (resi di nuovo agibili) di un’opera di altissima ingegneria, simbolo della capacità da parte dell’uomo di assoggettare la natura, commuoverci davanti a un memoriale che ci ricorda l’immane tragedia di quella che è considerata la prima guerra moderna, o provare sconcerto per ciò che rappresenta, l’assurdità dell’ingegno umano al servizio dello sterminio?

E scopriamo che questo dilemma, questa ambivalenza, ha costituito la cornice dentro la quale anche il progetto si è mosso: recuperare il forte per dovere di memoria, per la bellezza dei luoghi, per la qualità della sua concezione, evitando di esaltare lo spirito guerrafondaio e di omaggiare la guerra; restituirgli, attraverso una riscrittura, i suoi significati molteplici senza semplificare, senza cadere nella retorica, senza tradire lo spirito del luogo e la sua identità: il suo essere ex manufatto tecnico, lo stadio più evoluto raggiunto dall’ingegneria militare austro-ungarica e, allo stesso tempo, lieu de mémoire3, contenitore della memoria collettiva. In gioco non c’era solo una questione metodologica, la ‘corretta’ interpretazione del testo storico, la comprensione della preesistenza, ma la messa in valore del suo senso profondo, patrimonio materiale e immateriale.

Una riconquista pacifica, cent’anni dopo, di quel mondo senza tempo scavato e violato per imporre il frastuono della storia e stabilire, ancora una volta con le armi, le ormai potentissime armi della Prima guerra mondiale, i nuovi confini tra le nazioni. Immaginata già allora da Bruno Taut, nel suo Die alpine Architektur4 (1919), come trasformazione di quei luoghi estremi e ostili in luoghi di risarcimento e di riconciliazione.

Fortezze

Il Valmorbia-Werk doveva rappresentare, secondo il colonnello austriaco ed esperto di fortezze Franz von Steinhart, il progetto più avanzato del sistema fortificatorio austro-ungarico del Sud Tirolo. La risposta alla crescente potenza delle artiglierie era scavare, non più edificare. Sprofondare interamente il forte nella collina rocciosa sulla quale avrebbe dovuto essere costruito e realizzarlo come opera in caverna, secondo tecniche costruttive d’avanguardia che anticipavano i bunker della Seconda guerra mondiale. La strategia fu compromessa dallo scoppio della guerra che impedì il proseguimento dei lavori di costruzione dello sbarramento Adige-Vallarsa e il completamento del forte iniziato nel 1911. Troppo presto, quindi, e insieme troppo tardi. Questo sfalsamento dei tempi della storia determinerà in modo decisivo il suo destino: di opera monca e inadeguata durante le ostilità e inutile subito dopo. L’esito della guerra, con l’annessione all’Italia del Trentino, la svuoterà della sua importanza strategica, riducendola a figura letteraria, presidio di un luogo senza più un nemico come la Fortezza Bastiani di Dino Buzzat5, e la condannerà all’abbandono e alla rovina.

“Rileggere il Forte di Pozzacchio non già come episodio isolato, ma come parte di un sistema complesso”6 – è l’intento di Collotti e Pirazzoli. In questa chiave il progetto di recupero coglie ed esalta proprio quei caratteri che hanno costituito la sua singolarità: il non finito, la qualità dell’opera (“gioiello di strategia bellica”7), la sua natura sotterranea (“sofisticata costruzione ipogea”8) e, soprattutto, il suo essere ‘fatto territoriale’.

Il suo inscindibile legame con il suolo, il suo riconfigurare quella relazione primaria (topografia, prima ancora che costruzione) che tanta critica di architettura9 ha indicato come dimensione specifica, viene reinterpretato in una prospettiva paesaggistica (paesaggio fortificato, teatro di guerra) che rende maggiore giustizia alla sua storia. Il territorio torna a essere innanzitutto dato fisico, elemento imprescindibile di ogni strategia militare10, luogo nel quale il modello ideale diventa costruzione situata, forma di razionalità insediativa, progetto che accoglie gli accidenti come requisiti necessari alla propria efficacia di dispositivo spaziale.

In questo senso il carattere di osservatorio privilegiato sul territorio del forte, così legato al dato geografico, rappresenta l’ultima versione possibile di una strategia che, con l’avvento del controllo sistematico del cielo consentito dallo sviluppo degli aerei, sarebbe stata definitivamente abbandonata.

Segni silenziosi

Quando arriviamo in prossimità del promontorio iniziamo a intuire l’enormità del manufatto, comprensibile fino in fondo solo entrando, attraverso gli esigui segni che denunciano la sua presenza all’esterno: un grande vuoto nel pieno della roccia, che erompe dal bastione solo laddove necessario, attraverso le cannoniere.

L’interno, interamente spogliato delle attrezzature originarie (baracche, impianti) e ri-colonizzato dalla potenza della natura, ha oggi più il sapore di un sistema di grotte o di una miniera in profondità, aperta nella roccia a suon di mine e di martelli pneumatici e poi abbandonata, che non quello di ex “luogo abitato con intelligenza”11, destinato all’alloggiamento di un’intera guarnigione.

Anche se, a uno sguardo più attento, i pochi frammenti originali che costellano ancora, in modo a volte quasi impercettibile, gli spazi silenziosi e umidi delle gallerie, raccontano di un rigorosissimo sistema di modificazioni a uso ‘abitativo’: un cordolo, le staffe metalliche dell’impianto elettrico, le canaline per raccogliere le acque di cui trasuda la roccia carsica, le scanalature per l’alloggiamento delle saracinesche di compartimentazione, la sagomatura dei gradini delle scale. “Impronte silenti”12 che il progetto ha preservato, “come reperti archeologici di un tempo recente”13.

Archeologia del presente

Recuperare il forte ha significato quindi, per gli autori, prima un percorso di attenta lettura, comprensione e interpretazione del testo storico, attraverso una minuziosa ricerca sulle fonti (Kriegsarchiv di Vienna)14, poi un intervento basato sull’idea di renderlo nuovamente praticabile15 con dotazioni minime (luci, parapetti, corrimani) che consentono di raggiungere in sicurezza le parti in cui è articolata la complessa struttura, senza saturare lo spazio scavato delle gallerie sotterranee con elementi aggiuntivi; di esperire il vuoto nella sua nudità. E ancora, di sentire la sua identità sospesa tra l’idea di raffinata macchina militare e quella di luogo della sopravvivenza: insieme suprema opera di ingegneria e rozza galleria, “gigantesco formicaio mai terminato”16 e topaia.

Lasciare spazio all’immaginazione di chi visita il luogo. Suggerire, senza mostrare, la storia dei suoi adattamenti e stravolgimenti nel corso delle drammatiche vicende belliche e di quelle successive: montagna, labirinto, miniera, luogo di spoliazione: scavato, attrezzato, adattato, trasformato, svuotato, saccheggiato, depredato, sventrato, demolito, abbandonato. Per lungo tempo, per una comunità condannata alla sopravvivenza dall’isolamento e dalla guerra, ciò che conteneva – persino il ferro delle armature, recuperato con le mine – è stato più importante di ciò che rappresentava.

Attraverso pochi segni il progetto evoca, senza però ricostruirle, le attrezzature interne del forte e il rigore tecnico dell’organizzazione dello spazio originario, il suo carattere articolato e complesso e al contempo diagrammatico, essenziale17: una grande macchina di osservazione e di puntamento. L’essenzialità degli elementi architettonici aggiunti, costituiti da un solo colore (arancio minio) e da un solo materiale (acciaio), in qualche momento ricorda il rigore e la poesia con cui Vittoriano Viganò utilizza, in chiave espressiva, i profili metallici verniciati18.

Il non indulgere del progetto nella tentazione di un approccio ricostruttivo, né di inseguire una dimensione narrativa, crea le condizioni per uno sguardo critico, la possibilità di cogliere la natura ambigua del luogo – lo “speciale delirio che sta dietro le opere militari”19 – e di percepirlo come opera mai conclusa, proprio nelle parti che avrebbero dovuto conferirgli il carattere più offensivo: le postazioni dei mortai da 305 mm, in grado di infliggere danni a chilometri di distanza. Ora, nel vuoto di quel non finito, sta la parte più consistente e suggestiva del progetto: una vertiginosa doppia rampa di scale metalliche (senza alzata e con la pedata in grigliato) che, attraversando i 25 metri di altezza del cunicolo di caricamento delle cannoniere completamente scavati nella pietra calcarea, emerge dallo sperone nella sua posizione sommitale, dando accesso a una passerella-ponte (trave Vierendeel) sagomata secondo le forme che avrebbero dovuto avere gli alloggiamenti delle torrette corazzate. Arrivati in cima la piattaforma ci restituisce l’orizzonte, rendendo di nuovo possibile, come una sorta di risarcimento, una relazione visiva pacificata con il paesaggio. Ci facciamo riempire dal silenzio delle montagne innevate.

Resistenza

L’architettura concettualmente sofisticata20 ma esecutivamente semplice di questo progetto di recupero – “misurata composizione di frammenti ricomposti”21 concretizzata nella “traccia rossa” che, come unico dispositivo, li lega e ne dichiara l’appartenenza a un sistema comune – è, in fondo, una forma di resistenza. Resistenza all’oblio – messa in opera della memoria22 –, resistenza alla forza della natura che tutto cancella, resistenza all’idea che quel posto sia solo un belvedere, un luogo di consumo visivo, ma anche resistenza alla costruzione di una memoria della guerra – una guerra che è stata “inaudita contaminazione di modernità [tecnologica] e barbarie”, “primo massacro etnico e tecnico, biologico e industriale”23 – come fatto celebrativo, come sfondo della vicenda umana e destino ineluttabile. E ancora, resistenza all’idea di trattare una struttura funzionale a un progetto di morte e distruzione solo come luogo suggestivo, di evasione; all’idea di rendere comodi quegli spazi angusti strappati dall’uomo al cuore della montagna. Resistenza, infine, all’idea di dare un’immagine architettonica compiuta a qualcosa che, per molti versi, è ancora indicibile. E che eppure è avvenuto. Proprio lì.

1 Verso della canzone antimilitarista della tradizione popolare italiana Fuoco e mitragliatrici (anonimo, 1917), scritta durante la Prima guerra mondiale.
2 F. Collotti, G. Pirazzoli, Guardare senza essere visti / Beobachten ohne gesehen zu werden, in AAVV, Forte Pozzacchio / Valmorbia-Werk, Iasa Edizioni, Trento, 2020, p. 47
3 Luogo di memoria (lieu de mémoire) è un concetto introdotto dallo storico francese Pierre Nora nella sua raccolta in tre volumi Les Lieux de Mémoire, Gallimard, Paris, 1984-1992
4 Taut compone il testo durante la Prima guerra mondiale, avendo sullo sfondo gli eccidi di massa e le distruzioni determinate dal conflitto.
5 “Fortezza svuotata ormai della sua importanza strategica, rimasta solo una costruzione arroccata su una solitaria montagna” (D. Buzzati, Il deserto dei tartari, 1940).
6 F. Collotti, G. Pirazzoli, Guardare senza essere visti / Beobachten ohne gesehen zu werden, in AAVV, Forte Pozzacchio / Valmorbia-Werk, Iasa Edizioni, Trento, 2020, pp. 44-46
7 M. Ferrari, La misura ritrovata / Das wiedergefundene Maß, in AAVV, Forte Pozzacchio / Valmorbia-Werk, Iasa Edizioni, Trento, 2020, p. 59
8 M. Ferrari, La misura ritrovata / Das wiedergefundene Maß, in AAVV, Forte Pozzacchio / Valmorbia-Werk, Iasa Edizioni, Trento, 2020, p. 59
9 V. Gregotti, Il territorio dell’architettura, Milano, 1966 e K. Frampton, Between Earthwork and Roofwork: Reflections on the Future of the Tectonic Form, “Lotus International”, 99, 1998, pp. 24-31
10 cfr. Francesco di Giorgio Martini, Trattato di architettura civile e militare, 1470 circa
11 M. Ferrari, La misura ritrovata / Das wiedergefundene Maß, in AAVV, Forte Pozzacchio / Valmorbia-Werk, Iasa Edizioni, Trento, 2020, p. 60
12 M. Ferrari, La misura ritrovata / Das wiedergefundene Maß, in AAVV, Forte Pozzacchio / Valmorbia-Werk, Iasa Edizioni, Trento, 2020, p. 60
13 M. Ferrari, La misura ritrovata / Das wiedergefundene Maß, in AAVV, Forte Pozzacchio / Valmorbia-Werk, Iasa Edizioni, Trento, 2020, p. 61
14 A. C. Bierrenbach, F. Calabrese, Lettura e appropriazione della memoria / Erinnerung – Begreifen und Ergreifen, in AAVV, Forte Pozzacchio / Valmorbia-Werk, Iasa Edizioni, Trento, 2020, p. 73
15 F. Colotti, nel suo saggio Costruzione, ricostruzione, in Appunti per una teoria dell’architettura, 2002, delinea un approccio al restauro delle antiche costruzioni basato sulla “restituzione all’uso con forme e tipi disponibili alla continuazione della vita al loro interno”.
16 G. Cerri, «E uscimmo a riveder le stelle» / „Und traten vor zum Wiedersehn der Sterne“, in AAVV, Forte Pozzacchio / Valmorbia-Werk, Iasa Edizioni, Trento, 2020, p. 70
17 “piccola città nascosta nella roccia, logica e razionale in ogni sua parte, in ogni ambiente, percorso, risalita, affaccio, tecnica costruttiva o ragione funzionale” (M. Ferrari, La misura ritrovata / Das wiedergefundene Maß, in AAVV, Forte Pozzacchio / Valmorbia-Werk, Iasa Edizioni, Trento, 2020, p. 60
18 “Viganò, come Alberto Burri, nel corso della sua vita sarà affascinato da due colori: il rosso e il nero. […] Sono i colori che meglio esaltano la poesia del non finito, del provvisorio, dell’architettura che rifiuta di presentarsi come la soluzione incontrovertibile e definita di una equazione” (L. Prestinenza Puglisi, Architetti d’Italia. Vittoriano Viganò, l’esistenzialista, in “Artribune”, edizione on line, 14 aprile 2020). Sul concetto di “non finito” in Viganò si veda anche A. Stocchi, Vittoriano Viganò: etica brutalista, Testo & immagine, Torino, 1999, p. 83
19 F. Collotti, G. Pirazzoli, Guardare senza essere visti / Beobachten ohne gesehen zu werden, in AAVV, Forte Pozzacchio / Valmorbia-Werk, Iasa Edizioni, Trento, 2020, p. 51
20 Collotti fa esplicito riferimento al lavoro dell’artista Rachel Whiterhead.
21 M. Ferrari, La misura ritrovata / Das wiedergefundene Maß, in AAVV, Forte Pozzacchio / Valmorbia-Werk, Iasa Edizioni, Trento, 2020, p. 58
22 “abbiam cercato col progetto di mettere in opera la memoria” (F. Collotti, Corazzate sepolte in cima a un monte / Auf dem Berggipfel vergrabene Panzerschiffe, in AAVV, Forte Pozzacchio / Valmorbia-Werk, Iasa Edizioni, Trento, 2020, p. 58 p. 113)
23 A. Gibelli, introduzione all’edizione italiana del libro di Paul Fussel, La grande guerra e la memoria moderna, 1984

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