Un seminario permanente

Paolo Vitali

Io ero seduto al centro del tavolo, a fianco a me c’era Giancarlo De Carlo con la lavagna luminosa, dall’altro lato c’era Cesare de Seta e poi c’erano un ragioniere e altri collaboratori per fare più rapidamente i calcoli […]. Mentre io interrogavo i futuri utenti, De Carlo disegnava. Sono stati fatti centinaia di disegni. È stato bello vedere nascere man mano l’idea.
De Masi, intervista con l’autore, settembre 2018

Terni, luglio 2018. È un caldo pomeriggio estivo. Quando arriviamo in via Irma Bandiera davanti a noi si parano le testate dei blocchi del Villaggio Matteotti, complesso abitativo per i dipendenti delle Acciaierie progettato e (solo parzialmente) realizzato tra il 1969 e il 1975 e capolavoro di Giancarlo De Carlo. “Primo esempio italiano di programma costruttivo all’insegna dell’attiva “partecipazione” dell’utenza”. È difficile guardare quegli edifici senza pregiudizio e non sovrapporgli immediatamente le decine di immagini che nel tempo ne hanno fissato l’iconografia “ufficiale” nelle innumerevoli pubblicazioni dedicate al progetto. È ancora possibile guardarli con altri occhi? Ci proviamo. Per farlo cerchiamo di sostituire il racconto dei libri e delle riviste con le testimonianze di due guide d’eccezione che ci condurranno per i meandri del complesso. Sono GS, pensionato, ex operaio siderurgico della Terni, qui residente da quando il nuovo Villaggio Matteotti è stato costruito e GA, giovane ingegnere, uno dei fondatori del Centro studi Giancarlo De Carlo che in questi edifici ha sede. Il primo rappresenta la memoria storica, l’espressione stanca e rassegnata di chi ha lottato una vita, in fabbrica come nel comitato di quartiere; il secondo l’istanza (frustrata) del ricambio generazionale, di un tentativo generoso e coraggioso quanto per ora infecondo di raccogliere il testimone di ciò che aveva significato quell’esperienza e rilanciarla verso una prospettiva futura, sganciata dalla fabbrica. Ci aspettavano lì, vicino alla fermata del bus.

Ci addentriamo nel complesso seguendo il percorso pedonale rialzato, il modo migliore, secondo GA, per cogliere l’anima del Villaggio, di comprenderne la concezione originaria. Quasi tutti gli avvolgibili sono chiusi. Non per abbandono (anche se le condizioni di alcune parti del complesso potrebbero far pensare il contrario), ma per difendersi dal caldo. A differenza degli edifici di oggi (spesso concepiti in chiave prettamente prestazionale) la qualità ambientale di questa architettura non sta nelle performance energetiche degli involucri, ma nell’articolazione e generosità degli spazi collettivi, dentro una prospettiva urbana. La priorità di allora erano i temi sociali. Bisognava concepire (e poi costruire), attraverso un processo partecipativo, non dei semplici edifici ma un pezzo di città. I futuri abitanti/utenti erano stati chiamati a esprimersi su come avrebbero voluto abitare, sulla propria vita prima e dopo il tempo della fabbrica, non semplicemente sui dettagli del loro appartamento. Un modo di essere coinvolti lontano dalle loro abitudini e aspettative (dalla loro idea di partecipazione), dalla loro cultura. Una grande discussione collettiva, condotta dal sociologo Domenico De Masi su mandato della direzione dell’azienda, che gli aveva “imposto” un ribaltamento del punto di vista, un invito a esigere di più.

Quanto ciò che stiamo osservando – un insieme di rigore stereometrico e di natura caotica e lussureggiante, lasciata in parte al suo destino che ne determina l’aspetto magico – sia il frutto delle istanze nate da quella discussione e non piuttosto della sapienza architettonica di De Carlo è difficile da dire ed è stato oggetto di numerose analisi e critiche. Anche se il controverso modo in cui alla fine sono state interpretate le domande degli utenti – come sottolinea Frampton nelle pagine della sua Storia dell’architettura – ovvero la distanza culturale iniziale tra domande e risposte (da attribuire più all’incompatibilità delle visioni del mondo e dei modelli di riferimento di utenti e progettisti che non, come ha sostenuto qualcuno, alla cattiva fede o a un uso strumentale del processo partecipativo), non ha impedito che l’impresa si risolvesse “in un intervento residenziale notevole per qualità e varietà”. Forse proprio grazie a quel lungo e ricco confronto.

GS, destinatario all’epoca di uno di questi appartamenti (dove abita ancora oggi), l’aveva capito. Aveva dato il suo consenso a una proposta incentrata sulla qualità dello spazio pubblico. Aveva dato fiducia all’autorevole parere dei “professori” e aveva sposato la causa della “città nella città”, o almeno così aveva interpretato le intenzioni dei progettisti. D’altronde non avrebbe potuto diventare proprietario di casa in nessun altro modo. Se non “scegliendo” quel posto. Se non approvando quella proposta. In qualche maniera si trattava di un “esperimento sociale” e lui era stato scelto. Tanto valeva provarci e accogliere la sfida: andare ad abitare in quel luogo, dove il diritto alla città e le istanze dei futuri abitanti – “vivere in una città vera, verde e ben funzionante” [in einer echten, durchgrünten und gut funktionierenden Stadt zu wohnen] – erano stati tradotti in un complesso più simile a una comunità autonoma che a un brano urbano, in un “articolato sistema di blocchi lineari residenziali e di servizi integrati (asilo nido, ritrovi, biblioteca, sala cinema-teatro, ambulatorio, zone sportive, attività commerciali), collegati da distinti percorsi di traffico automobilistico e traffico pedonale sopraelevato”. L’avanguardia urbanistica nel cuore di un piccolo mondo antico.

È strana la storia dell’architettura moderna perché, a differenza di quella antica, spesso le sue tracce più significative non si trovano nei posti più importanti. Spesso sono i luoghi minori, i mondi periferici, a raccontare vicende controverse e cruciali, ad accogliere le esperienze più coraggiose e avanzate, come quella del Villaggio Matteotti di Terni. Una controstoria per dirla con Bruno Zevi. In realtà una storia conosciuta e ampiamente raccontata, a partire da alcuni dei suoi protagonisti: De Carlo e De Masi. Una vicenda largamente documentata e criticamente riletta nelle pagine di riviste specializzate [“werk”, 59, 1972], libri di storia dell’architettura e monografie, attraverso le parole di autorevoli studiosi e numerose interviste.

Una vicenda complessa che, pur riguardando un intervento relativamente contenuto in termini di estensione (240 alloggi su circa 3 ettari – la parte realizzata rappresenta solo ¼ del totale previsto), intercetta alcune questioni cruciali del dibattito dell’epoca, non solo architettoniche e urbanistiche ma anche sociali, culturali, economiche e politiche. Capace di sintetizzare in sé, più di altre, le contraddizioni di un’epoca e di lasciare in eredità importanti questioni aperte. Una vicenda sulla quale esistono tutt’ora significative divergenze di valutazione rispetto al peso da attribuire alla partecipazione: per alcuni elemento principale dell’operazione, per altri “concetto di moda”, “mero motore di lancio per il quartiere”. E se da un lato è sicuramente riduttivo valutarne l’esito (e soprattutto il lascito) unicamente attraverso quella chiave di lettura, dall’altro liquidare la questione della partecipazione come operazione fallimentare (H. Schlimme, Il Nuovo Villaggio Matteotti a Terni di Giancarlo De Carlo. Partecipazione fallita e capolavoro di architettura, 2004) non aiuta a comprenderne il vero valore.

Il “tavolo” su cui si giocava la partita non era solo tecnico, ma soprattutto politico. Erano anni di forti tensioni in Italia, un periodo di risveglio da una parte e di grandi rivendicazioni sociali dall’altra, con la spinta del boom economico che si andava esaurendo. Erano anni di modernizzazione veloce, spesso forzata e socialmente iniqua, anni di grandi trasformazioni e sconvolgimenti territoriali. Anni dominati dall’emergenza abitativa e dalla speculazione edilizia, nei quali il mondo della siderurgia, nelle sue varie componenti, rappresentava sicuramente uno dei contesti di avanguardia e di più acceso dibattito, capace di elaborare e declinare le proprie richieste in piattaforme politiche progressiste anche se in forme ancora fortemente incardinate in strutture gerarchizzate e processi decisionali rigidi (sindacato, consigli di fabbrica), nonostante le istanze di emancipazione esaltate dal 1968.

Che quindi, viste le premesse, il valore della vicenda stia più nel processo che nel risultato è opinione condivisa, sostenuta anche da Tafuri nella sua Storia dell’architettura italiana. 1944-1985. E che il problema del processo partecipativo (e implicitamente la sua natura di esperienza concreta) fosse affrontabile efficacemente “solo scomponendolo e rispondendo appropriatamente a situazioni specifiche” come sottolinea Frampton, è la riconferma dell’intelligenza di De Carlo nella gestione della vicenda e della coerenza del suo approccio: “«non serve una teoria della partecipazione ma [...] l’energia per uscire dall’autonomia», per “sporcarsi le mani” per “contaminarsi” con il luogo. Solo mettendo costantemente in crisi i principi di «incontaminazione, autonomia, autosufficienza» che hanno lentamente appesantito l’architettura moderna rendendola impermeabile al suo pubblico, per De Carlo, l’architettura diventa «utopia realistica», costruttrice di un’idea di comunità”.

Ciò che gli consente di dialogare con le altre componenti in gioco è la sua capacità di ascolto. Il centro della sua riflessione resta sempre il “ruolo dell’architettura nei confronti della società”, dettata dalla sua costante attenzione al “perché” oltre che al “come” (sulla linea già espressa da Pagano [Casabella, 1935]), un’architettura intesa come organizzazione e forma dello spazio, non autonoma ma eteronoma.

Quello che colpisce, a quasi 50 anni di distanza, è la lucidità con cui De Carlo, nel saggio / memoria Il Villaggio Matteotti a Terni (1981), descrive il contesto che precede l’intervento e ne mette a fuoco gli elementi salienti e i caratteri di problematicità, analizzandone le implicazioni sociali, economiche, politiche, prima ancora che urbanistiche e architettoniche.
“Organizzare e dare forma allo spazio mette in relazione con la vita degli essere umani” – qui risiede, per De Carlo, la complessità dell’architettura e il suo legame indissolubile con i temi sociali. Sì perché per lui, più ancora che per gli altri protagonisti di quell’esperienza, questo era il presupposto, questo il piano di confronto su cui portare la discussione, questa la prospettiva da cui osservarla. Niente di meno ideologico negli anni più politicizzati del paese. Niente di meno utopico negli anni delle “megastrutture”, dei “monumenti continui” e dell’architettura solo disegnata. E, allo stesso tempo, niente di meno pragmatico, negli anni in cui, in nome delle case per la classe lavoratrice, si arricchivano gli speculatori edilizi.

Non la ricerca di un metodo, di una formula che potesse funzionare sempre, di una ricetta, non la “teoria della partecipazione”, ma un’esperienza basata sull’ascolto, sulla disponibilità a mettere in gioco le proprie certezze, “per tentativi”: un confronto con il luogo inteso come spazio abitato.

De Carlo è fortemente consapevole, e lo dichiara [“werk”, 59, 1972], dell’importanza e della crucialità delle questioni in gioco nell’operazione e degli obiettivi da perseguire: la funzione (intesa come ruolo sociale) dell’architetto, contro un’architettura puramente decorativa; la critica all’identificazione spazio/funzione in quanto presupposto della segregazione spaziale a livello urbano e all’approccio al progetto dell’alloggio secondo logiche produttivistiche; la critica ai processi chiusi, alle metodologie impermeabili al dato esperienziale e alla possibilità di introdurre modifiche; l’interazione dell’utente, senza la quale non esiste architettura; la necessità di superare l’alternativa casa unifamiliare/appartamento come versioni “povere” della villa e del palazzo della città, attraverso un processo partecipativo educativo che conduca alla scelta di modelli non consueti; la necessità di coinvolgere l’utente nell’intero processo; la critica allo standard (progettare senza sapere per chi); la necessità della presenza di un sociologo (capire e interpretare correttamente i bisogni degli utenti e accrescere la loro consapevolezza); la possibilità di adattamento degli alloggi (non soluzioni ma alternative) [nicht mehr Lösungen, sondern Alternativen gefunden werden müssen]; la consapevolezza che la praticabilità della flessibilità non dipende solo da una fattibilità teorica (arretratezza tecnologica, sostenibilità finanziaria) [leider ist sie aber noch nicht möglich, da der Rückstand in der Bautechnologie noch keine befriedigenden Produkte bietet, die auch finanziell tragbar sind]. Questioni enormi, che spesso esulano dal problema specifico, ma che per De Carlo sono ineludibili. Questioni che chiaramente riguardano anche temi strettamente architettonici e il cui chiarimento fornirà lo spunto per le soluzioni successivamente adottate o scartate. Il processo partecipativo infatti non è per De Carlo antitetico allo sviluppo, da parte del progettista, di riflessioni tecniche, né può essere sinonimo di rinuncia alla ricerca formale e tantomeno di processo non governato. In questo senso è lo stesso De Carlo a precisare: “la partecipazione dell’utente richiede la metodologia scientifica e non si può, come molti credono, lasciare tutto al caso” [Deshalb bedingt die Teilnahme des Benutzers die wissenschaftliche Methodologie, und man kann nicht, wie viele glauben, alles dem Zufall überlassen]. E infatti il processo progettuale, nel percorso di definizione formale dell’intervento, affronterà problemi specifici come l’integrazione degli spazi collettivi all’interno degli edifici, il grado di interazione dell’utente (flessibilità, modificabilità, sistema aperto), la modularità, cercando sempre di evitare che ognuno di essi prevalga sulla configurazione generale.

È facile, se si guardano oggi in modo superficiale e disincantato gli edifici del Villaggio Matteotti, un giudizio impietoso: tapparelle abbassate, locali vuoti, vetri rotti, passaggi murati, cementi rovinati dall’usura, degrado. Eppure quel frammento di quartiere realizzato, che per certi versi può ricordare il brutalismo duro (e ideologico) di tanta architettura sperimentale dell’epoca (low-level, high-density), assomiglia in realtà più a un vecchio scrigno segnato dal tempo ma capace di custodire al suo interno un segreto e una meraviglia: la natura lussureggiante, i camminamenti sospesi tra gli alberi, gli spazi per la chiacchiera e per i capannelli sulla soglia degli appartamenti, la lezione antica che ritorna, il dialogo con il passato inteso non come riutilizzo del linguaggio, dei materiali e degli stili ma delle logiche del dispositivo architettonico (S. Marini, introduzione a L’architettura della partecipazione, 2013). Elementi di valore urbano e forme di partecipazione alla città ancora riconoscibili nonostante l’anelito frustrato di un progetto interrotto e una marginalità del quartiere non risolta ma accentuata, anni dopo, da discutibili scelte politiche e urbanistiche (difese in parte anche da chi lottava in nome degli operai).

“Considero ancora questa operazione come un grande seminario, in cui tutte le componenti sono uscite arricchite, un seminario che continua anche con la nostra chiacchierata di oggi”. Conclude così l’intervista De Masi, rimarcando quello che per lui è stato, e continua a essere, il vero valore di tutta l’esperienza e ricordandoci come la riuscita dell’operazione, un’operazione a suo avviso rivoluzionaria, sia stata in fondo frutto di “miracolose coincidenze”: una sinergia di fattori e di condizioni ideali (tra cui senza dubbio il coraggio e l’altissima qualità dei profili culturali e intellettuali delle persone coinvolte) con cui De Carlo ha saputo interagire, dentro una dinamica virtuosa di ascolto e adattamento reciproco.

Avrà ancora la forza, questo piccolo brano di modernità sociale prima che urbanistica e architettonica, di continuare a testimoniare, come un’icona sbiadita (e ferita), l’esperimento di una diversità possibile? Sarà ancora in grado, a partire dalle istanze da cui è sorto, di rilanciare il suo messaggio libertario e tornare ad accoglierlo al proprio interno? Saprà continuare a tramandarci, come memoria viva, la sua lezione?

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