M9. Materialità immateriale.

Paolo Vitali

“la questione del contesto fisico e culturale di un intervento architettonico deve sempre essere posta e ogni volta risolta” Matthias Sauerbruch

Mestre, l’opposto di Venezia, da sempre la sorella minore, più “dura” e meno raffinata. Cresciuta all’ombra della Serenissima fino a diventare il suo avamposto industriale, il luogo delle ambizioni di modernità di una Venezia che nel frattempo “moriva”. Per lungo tempo incompresa, “invisibile”, semplice appendice dell’isola, è stata epicentro di processi di trasformazione radicali e delle drammatiche vicende del XX secolo, e ne ha pagato il prezzo. Oggi è una realtà molto diversa, l’approdo di molti veneziani in fuga da un turismo soffocante, un luogo in cerca di (una nuova) identità. Una città dinamica e in evoluzione, un agglomerato urbano con alcune polarità importanti: per i promotori il contesto ideale per ospitare un distretto museale che aspirasse a essere centro di produzione culturale, laboratorio vivo, luogo programmatico.

Un innovativo museo del 900 come elemento chiave di una strategia urbanistica più vasta, mirata a ridefinire una struttura urbana complessa e consolidata e soprattutto culturalmente sedimentata dentro un immaginario rigido e poco incline ad accogliere i cambiamenti: questo è l’obiettivo del progetto M9, ambiziosa utopia intellettuale prima ancora che programma di rigenerazione urbana. Metafora – una “fabbrica del sapere” – prima ancora che architettura in senso fisico. L’operazione M9 nasce a tavolino, nel 2007, con l’intento di “riconoscere a Mestre una centralità culturale inedita”;di proporre “un modello innovativo di rigenerazione urbana in cui la qualità architettonica dà forma e si salda con un progetto culturale inedito a livello nazionale”;di innescare trasformazioni urbane e ridefinire le relazioni (storicamente problematiche) tra Venezia e la (sua) terraferma.

Sono ormai molteplici (anche in Italia) gli esempi di istituzioni culturali utilizzate come attivatori di dinamiche territoriali e generatori di sinergie: si tratta di sfide all’interno delle quali spesso l’architettura viene caricata di aspettative eccessive o ridotta ad ancella del marketing, investita del mandato di formalizzare seducenti scenari per attrarre nuovi investimenti e distolta dal suo compito principale di disegnare lo spazio. Rispetto ai modelli di riferimento più noti (Guggenheim di Bilbao) qui ci troviamo di fronte a un orizzonte diverso, più contenuto; a un’iniziativa privata – Fondazione di Venezia è l’attore principale, finanziatore e realizzatore –, anche se di respiro istituzionale; a un contesto urbano peculiare, stretto nel suo dilemma “essere o non essere Venezia”.E soprattutto a un’ipotesi azzardata: cercare, in un paese diviso e campanilistico come l’Italia, di accreditarsi come l’istituzione più autorevole per raccontare una memoria del Novecento condivisa.

La misura dell’entità dell’investimento economico e delle energie dispiegate in chiave di promozione e comunicazione dell’iniziativa ce la dà la risonanza mediatica che ha avuto il percorso di avvicinamento all’inaugurazione del nuovo complesso (fine 2018): tra il resto, ben due mostre all’interno della Biennale di Venezia (“M9. A New Museum for a New City”– 2010, sugli esiti del concorso; “M9 transforming the city” – 2014, sull’esito finale del progetto) e un ampio servizio su “Casabella” (“Non un museo ma un brano di città”, 894, febbraio 2019) poco dopo l’inaugurazione, a sancire quella che, nelle intenzioni dei promotori, è un’operazione di respiro internazionale.

La prospettiva entro la quale si inserisce l’intervento ce la danno invece le parole utilizzate da Giuliano Segre, presidente della Fondazione di Venezia, nel catalogo della mostra del 2014: “Un mattoncino di carta e non di argilla con cui la Fondazione dimostra che il progetto intrapreso si concretizza in qualcosa che non è una mera struttura architettonica o un ardito disegno urbanistico, ma un complesso e articolato laboratorio di ricerca”. Parole che certificano l’ambiziosità del progetto e implicitamente interrogano sul ruolo dell’architettura, sul significato immateriale della parola progetto e sulla sua portata operativa; sul rapporto tra architettura e immaginario e sulla dimensione evocativa che al progetto viene attribuita; sulle aspettative create intorno a questa iniziativa.

L’istanza programmatica di ospitare l’immateriale (museo senza reperti) e di trasformare il reale (distretto museale) immette l’operazione dentro una prospettiva strabica, dentro una narrazione che oscilla necessariamente tra materiale e immateriale, contenitore e contenuto. Con l’architettura che rischia di trovarsi schiacciata tra un ruolo assoluto, ovvero interamente caricata della responsabilità del buon esito dell’iniziativa, e quello di mera appendice di un processo deciso altrove. Sulla base di queste difficili premesse Sauerbruch e Hutton, vincitori del concorso, sono stati chiamati a impostare la loro strategia progettuale, in equilibrio tra l’autonomia della dimensione formale e la necessità di una dimensione sociale, consapevoli che “l’architettura vive in virtù del modo in cui viene occupata e fruita”. Secondo un’idea guida (città-paesaggio) che contempla edifici intesi “come speciali entità autonome”, ma con “forti qualità urbane che proseguono il racconto dell’ambiente circostante”.

Il museo si insedia in un contesto allo stesso tempo problematico e strategico: un ettaro di superficie a ridosso del centro che include l’ex caserma Matter e l’ex complesso conventuale delle Grazie, in disuso da anni. Qui gli autori si propongono di generare un complesso a forte valenza urbana, integrando edifici esistenti e volumi nuovi attraverso un progetto aperto, mirato a connettere parti di città prima separate. In una contemporaneità abituata al gesto, all’icona e all’ipervisibilità Sauerbruch e Hutton giocano la carta di un registro minuto, di una spazialità “medievale”, della scoperta progressiva, della prossimità. Nonostante la forte connotazione cromatica il complesso è l’antitesi del landmark. Appare sobrio sui fronti delle vie minori che circondano l’isolato e si svela pian piano, senza arroganza, al termine di suggestive sequenze di interni urbani. L’attenzione al contesto è l’esito di un approccio interpretativo: di una sua lettura critica in chiave linguistico-percettiva (accordo cromatico del rivestimento / modulazioni di colore dell’ambiente circostante / dialogo con la storia della città) ma soprattutto relazionale (uso dialettico dei materiali – ceramica policroma / cemento – per attenuare l’impatto e restituire la scala all’edificio / permeabilità spaziale interno-esterno).

La fittezza e la disposizione degli elementi del rivestimento policromo (firma dello studio) producono un effetto di smaterializzazione e destabilizzazione che contrasta con il trattamento scultoreo delle masse sporgenti e degli incavi in cemento a vista e genera una voluta e sofisticata ambiguità tra bidimensionalità e tridimensionalità, valore di superficie e volume, ben distante della banalità sempre più diffusa degli stanchi e ripetitivi decorativismi di facciata. In questo modo ingressi, rientranze, aggetti e lucernari acquistano una propria identità e diventano gli elementi di mediazione tra interno ed esterno di un edificio che sembra respirare: accoglie la città e si protende verso di essa.

Lo spazio pubblico – vero valore urbano ed elemento portante e strutturante del progetto – fluisce attraverso il complesso secondo modalità differenti: contenuto, come nel caso delle parti storiche (chiostro), da diaframmi, oppure individuato per differenza dalla giustapposizione dei corpi delle parti nuove. La scelta di frammentare il nuovo volume per favorire un suo inserimento discreto nel contesto preesistente differenzia la proposta vincitrice da tutte le altre in concorso. La versione finale è frutto di una serie di adattamenti progressivi della strategia urbana che strutturano lo spazio lungo una giacitura diagonale per accentuarne il carattere di permeabilità. La ricerca di uno spazio fluido, privo di interruzioni, determina la disposizione delle funzioni, che vengono aggregate in modo da favorire al massimo la penetrazione dello spazio pubblico all’interno dell’edificio, quasi senza soluzione di continuità.

La parte nuova di M9 è caratterizzata da due volumi differenti che ospitano il programma museale e si inseriscono in maniera proporzionata nel tessuto della città storica, secondo una modalità che fa emergere chiaramente il principio di progettazione urbana adottato dagli autori – “prendere ciò che già esiste e lavorare con esso”–: un dialogo con il passato basato sulle relazioni spaziali e non sulle forme. Ne emerge un’architettura che non rinuncia all’espressione ma allo stesso tempo specifica e rispettosa del contesto. Un approccio alla riqualificazione urbana che pone al centro l’interazione con lo spazio e che rifiuta le semplificazioni formali e tipologiche e i riduzionismi della “ricostruzione critica” (la ‘dittatura’ del blocco perimetrale) in nome della “consapevolezza della diversificazione della città come esperienza spaziale che riflette la diversità dei suoi usi e dei suoi residenti”.

Una strategia sofisticata dei codici materici definisce chiaramente le gerarchie degli spazi con scelte che enfatizzano la natura sensoriale dell’architettura del museo, interpretando l’architettura come mediatrice e interfaccia della luce solare. Pavimentazioni, rivestimenti e controsoffittature concorrono a qualificare lo spazio nelle sue varie articolazioni: la pietra – che dagli esterni si estende senza interruzioni anche al piano terra dell’edificio espositivo – interpreta la permeabilità del luogo e la sua appartenenza allo spazio pubblico; il rivestimento policromo – che, seguendo le geometrie oblique dei volumi, genera un effetto destabilizzante, atettonico e giocoso – celebra la socialità; il cemento a vista – che, attraverso la texture impressa dai casseri sulla sua superficie, diventa elemento “gentile” – accentua la fluidità degli spazi interni; il legno – utilizzato dappertutto (pannelli dei controsoffitti) – restituisce una dimensione domestica.

Il tipo di programma – un museo senza oggetti – “costringe” il progetto a una genericità degli spazi espositivi (black box, white box) che connota completamente l’esperienza che si fa di essi e la cui qualità è completamente delegata all’allestimento e agli stimoli multimediali. La scelta degli autori diventa allora quella di qualificare, in una logica di contrappunto, gli spazi non espositivi, gli spazi accessori, gli spazi distributivi (secondari ma centrali all’interno dell’esperienza del museo), che diventano spazi materici, luoghi dove si recupera una dimensione percettiva legata alla concretezza, alla luce naturale, al tatto. Ne sono testimonianza il cemento a vista delle pareti, “ammorbidito” dall’impronta della trama del legno della cassaforma, il legno del corrimano della grande scalinata interna che, con la sua sagoma ricercata, ricorda alcuni lavori di Alvar Aalto, i tagli di luce e i lucernari nelle loro varie forme, le pavimentazioni, le pannellature e i colori delle tinteggiature.

Date le premesse iniziali era più facile sbagliare che fare bene. La bravura di Sauerbruch e Hutton è stata quella di non essere ideologici, di non dare al mandato culturale un valore assoluto, di cogliere le specificità del contesto. Di riuscire a non essere schiacciati dalla vastità delle questioni che l’operazione si era posta di affrontare (con risposte definitive): da quella territoriale (relazione Venezia / terraferma) a quella concettuale (supremazia dell’idea / supremazia dell’edificio) esplicitata dall’affascinante ma pericolosa metafora del dualismo “mattone di carta / mattone d’argilla”. Di ritagliare, dentro questo mandato, un ruolo per l’architettura, consapevoli di ciò che essa potesse o non potesse modificare: trovare una misura, dare un’identità, creare urbanità. La scommessa, alla scala architettonica e delle relazioni urbane, sembra vinta. Sarà sufficiente affinché il progetto venga adottato dalla comunità locale e per accreditare definitivamente l’M9 come nuova centralità urbana?

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