Architettura senza città

Alberto Caruso 

Fino alla fondazione dell’Accademia di Architettura di Mendrisio, gli architetti ticinesi studiavano a Zurigo, o a Losanna e Ginevra. Cresciuti nelle piccole città e nei villaggi del Cantone, passavano gli anni più importanti della loro formazione in una grande città dalla intensa vita culturale. Prima di tornare in Ticino, il loro curriculum prevedeva collaborazioni in studi della Svizzera tedesca o romanda, e in altri paesi europei, a volte negli USA, alimentando la cultura locale di conoscenze diverse.
Oggi, tra gli architetti iscritti alla sezione Ticino della SIA nati tra il 1975 e il 1985, ci sono 91 diplomati all’Accademia, 13 diplomati all’ETHZ, 19 diplomati all’EPFL e 12 diplomati nelle università di altri paesi europei (oltre a 85 diplomati nelle scuole universitarie professionali). Il curriculum degli architetti diplomati all’Accademia è diverso, in generale, da quello che abbiamo descritto: la frequentazione di una scuola linguisticamente pluralista (11 stranieri, 7 svizzeri non ticinesi e 5 ticinesi su 23 docenti degli atelier di progettazione), in compagnia di studenti di diverse culture (dal 2006 su 522 diplomati solo 81 sono ticinesi) ha sostituito o ridotto le esperienze di collaborazione in studi stranieri o a nord delle Alpi, immettendo subito i neodiplomati nel mestiere.

Entrambi i percorsi formativi appaiono ricchi di stimoli provenienti da altre culture, con la differenza che la condizione recente appare più passiva, le esperienze diverse sono impartite dalla scuola e assorbite dall’ambiente, mentre nella condizione passata erano oggetto di conquista individuale.
La produzione professionale degli architetti più giovani è ancora latente. L’elevato numero di professionisti operanti in studi molto piccoli e la conseguente forte competitività offrono davvero poco spazio alla presenza sul mercato dei giovanissimi. Il campione illustrato in questa pagina, selezionato con fatica, non può avere un valore scientifico, è utile soltanto per evidenziare qualche tendenza.

Alcuni giovani cinesi attraversano mezzo mondo per venire a studiare in Ticino motivati dal fascino del pensiero e dei progetti di Luigi Snozzi, mentre contemporaneamente i ticinesi più giovani sembrano abbandonare in modo deciso l’insegnamento dei maestri che hanno reso l’architettura locale nota nel mondo.
Fenomeni di graduale rinnovamento erano già in corso almeno dalla fine degli anni ‘90 ed erano evidenti nell’espressione dell’architettura, nel linguaggio mutuato soprattutto dall’architettura della Svizzera tedesca ed dai linguaggi diffusi a livello internazionale. Rispetto all’assoluta ortogonalità dominante l’architettura moderna locale, l’involucro degli edifici ha cominciato a deformarsi, per cercare motivazioni formali nel tema specifico. I fronti hanno cominciato ad essere concepiti più come appartenenti al paesaggio pubblico che ai caratteri distributivi dell’edificio, denunciando l’aspirazione all’urbanità continuamente presente e insoddisfatta. Ma le regole che determinano il progetto della “situazione”, il modo di collocare l’edificio sul terreno rispetto alla strada o alla pendenza, erano tuttavia ancora quelle insegnate dai progetti esemplari dei maestri. La relazione con il contesto si è andata anch’essa trasformando allargando la scala di riferimento, superando i limiti del lotto, guardando alla dimensione del paesaggio, alla geografia più che alla topografia. In una condizione insediativa disordinata come quella della città diffusa ticinese, allargare la scala è stato un procedimento necessario per conferire nuove ragioni all’architettura, insieme alla distanza critica rispetto al contesto immediato.

La maggior parte dei progetti dei giovanissimi selezionati realizza, invece, uno strappo di non semplice interpretazione rispetto alla tendenza descritta. Assistiamo ad un deciso allontanamento dal realismo della modernità ticinese, ad una tendenza alla ricerca estetica, tutta interna al linguaggio, nella quale si stenta a riconoscere l’aspirazione all’urbanità. Per realismo intendiamo l’atteggiamento espressivo che si misura sempre con le condizioni territoriali che si sono storicamente determinate e che in Ticino è anche profondamente materialista, considera la scelta consapevole dei materiali del progetto come la condizione che fa diventare cosa reale l’oggetto pensato, che lo fonda in quello specifico terreno.
Per esempio, non è immediato leggere a prima vista nella pianta e nel fronte della scuola di Balerna di Celoria Architects la posizione dell’ingresso, che invece è più facilmente intuibile nell’esperienza sensoriale della sua affascinante ripetuta sequenza di pallide forme. Così come non è altrettanto immediato riconoscere l’ingresso delle abitazioni per due famiglie a Rancate di Stocker Lee, un tubo dalla morfologia rigorosa e coerente con la pianta. E lo stesso si può dire per gli ingressi nel recinto perimetrale che costituisce la cifra innovativa del progetto della nuova sede USI SUPSI di Arbnor Murati. Nella consolidata “tradizione” moderna ticinese, la posizione dell’ingresso è considerata un carattere decisivo della qualità del progetto di situazione, da interpretare con un segno particolarmente espressivo, che connetta la strada con la costruzione, il pubblico con il privato, la parcella con l’insieme, il luogo del soddisfacimento del fabbisogno individuale con la forma dell’habitat complessivo, in modo che uno costituisca la ragione dell’altro.

Il contenuto culturale di tutti i progetti illustrati è davvero elevato, l’altare ligneo a Ligornetto di Nicolas Polli [1975] è frutto di una raffinata ricerca espressiva, come la Casa Gialla a Mendrisio di Freefox Architects è un riuso innovativo che scopre e valorizza una tipologia interessante. Gli autori sono accomunati da una formazione colta, capace di produrre un rinnovamento della ricerca linguistica ed anche intuizioni anticonvenzionali, come il ribaltamento di significati nella casa di Rancate, dove i muri interni sono in beton a vista mentre quelli esterni sono trattati con una morbida superficie metallica. Ma, se si fa eccezione per la “collina abitata” che Stella, Piccaluga e Fraccaroli hanno progettato a Cadro, che si misura con il tema cruciale della densità abitativa, quali pensieri, quali visioni rispetto al loro sfigurato contesto territoriale sottendono questi progetti dagli involucri ricercati? Quali strade suggeriscono per evitare il rischio di formare una città come somma di mille piccoli progetti pregiati ed energeticamente sostenibili, ma priva di un concetto generale e di spazi pubblici e attività sociali che riscattino la frammentazione abitativa? Quale discontinuità può definirsi effettiva se non scaturisce da un nuovo impegno politico (da polis) dell’architetto, cioè dal suo misurarsi con i nuovi contesti territoriali interpretando il mestiere come attività critica?

Cercare di capire le ragioni di questi progetti, comporta risalire alla formazione e soprattutto allo capacità di reazione dei giovani diplomati allo shock del mestiere, dello scontro con i condizionamenti della via reale. Il programma originario dell’Accademia, ispirato da Mario Botta e Aurelio Galfetti, di una scuola che formi “architetti del territorio”, preparati ad affrontare i grandi temi della diffusione insediativa e della crisi delle città, è sempre stato tra i temi trainanti nei 15 anni di attività didattica, soprattutto per merito dell’insegnamento di Galfetti. Il ricco pluralismo di voci e di contenuti dell’Accademia di Mendrisio ha conferito una dimensione polifonica all’insegnamento, con voci più vicine ed altre più lontane dall’orientamento centrale. Quest’anno Mario Botta ha assunto la direzione della scuola e come primo atto ha promosso un ciclo di conferenze sulla crisi della città europea, con l’annunciato scopo di riportare al centro della formazione il tema dei temi, la riflessione e la tensione progettuale sulla città come luogo della densità delle relazioni sociali.

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