Inaugurata 24 aprile 2015 – il giorno prima delle celebrazioni per il 70° anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo – la Casa della Memoria è la prima opera pubblica costruita a Milano dal collettivo Baukuh (1) di Genova. Fortemente voluto dalla municipalità della Città di Milano – che bandì il concorso di architettura aperto a soli progettisti italiani under 40 nel 2011 – il progetto consiste in 2400 mq di spazi dedicati alla raccolta, conservazione e la divulgazione della memoria storica di Milano: un laboratorio dove associazioni, studiosi e testimoni possono lavorare insieme generando nuova memoria da offrire alle nuove generazioni, per rendere omaggio a tutte le vittime dei totalitarismi e dei terrorismi in Italia.
Le alte travi a sbalzo che sorreggono il tetto della la stazione di Milano Porta Garibaldi – costruita da Giulio Minoletti nel 1963 – inquadrano oggi un panorama forse molto simile a quello che lo stesso architetto immaginò battezzando“Dopodomani” il progetto di concorso della stazione: uno sky-line di torri in acciaio e vetro, il un nuovo distretto direzionale “Porta Nuova”.
Nuova centralità milanese, simile a quelle previste dal piano urbanistico del lontano 1953, il “progetto Porta Nuova” è in costruzione dal 2005 gestito dal gruppo immobiliare statunitense Hines: estendendosi da Porta Garibaldi a piazza Repubblica, da Porta Nuova a Palazzo Lombardia, con i suoi 340000 mq di uffici, appartamenti di lusso e spazi culturali è uno dei cantieri più grandi d’Europa. Salendo dalla stazione alla nuova piazza “Gae Aulenti”, una piattaforma di 100 metri di diametro a sei metri di quota, circondata dalle torri dell’architetto statunitense Cesar Pelli (autore del masterplan del “district”) e continuando sulla sinistra, si arriva al cuore del nuovo quartiere: i giardini di Porta Nuova con il parco in costruzione “The Library of Trees”. Da qui, guardando verso il quartiere Isola, a lato delle torri abitative del progetto “Vertical Forest” di Stefano Boeri, la Casa della Memoria di Baukuh appare come un blocco enigmatico e astratto: a metà tra una scultura di arte concreta e un’istallazione nel parco. Le facciate, ricoperte interamente di mattoni policromi a 6 colori, sono composite e come i pixel di uno schermo a cristalli liquidi formano gigantesche immagini fotografiche. Vi sono ritratte scene significative della vita istituzionale di Milano: dall’annuncio dell’avvenuta liberazione della città in Piazza Duomo nel 1945, alle manifestazioni sindacali e studentesche degli anni ‘70, fino all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura dopo l’esplosione della bomba di Piazza Fontana – raffigurate su pannelli alti 9,6 m. Vi sono poi 19 volti di persone comuni, ritratte mentre svolgono normali attività quotidiane o partecipano ad eventi collettivi: operai in catena di montaggio, contadini nei campi, immigrati al confine italo-svizzero, studenti in protesta, donne in corteo, feste di quartiere … – su pannelli quadrati di 4,6m di lato. Il tutto è incorniciato da una griglia, costituita da corsi di mattoni in rilievo sulla facciata, come pilastri e architravi immaginari.
Avvicinandosi ci si rende conto che quello che da lontano pareva un cubo isolato è in realtà un parallelepipedo (20m x 35m, alto 17.5m): il volume si allunga infatti fino ad allinearsi con gli edifici della strada retrostante, inserendosi nel tessuto costruito, integrandosi alla perfezione. Da vicino le fotografie si scompongono nei loro pixel, perdendo la loro drammaticità: quel che rimane è la tessitura dei mattoni che insieme alle finestre dai serramenti neri, si accordano al carattere industriale del quartiere Isola, oggi zona residenziale, un tempo quartiere operaio e produttivo.
Entrando dalla porta principale si percorre l’ingresso ribassato e profondo attraversando lo spessore della fascia che in pianta ospita gli archivi – articolati su tutti i 5 livelli della facciata corta a Sud. Lo stesso nell’altro lato corto, a Nord, che ospita invece i servizi, i vani tecnici e circolazione verticale.
Il piano terra si apre libero: questo è lo spazio designato per eventi, mostre e conferenze, suddiviso in tre parti da due colonne a base ottagonale che sostengono le travi ordite in una griglia di 10 metri di luce. I materiali sono semplici: tutte le superfici sono in calcestruzzo con casseri in legno a vista, il pavimento in cemento lucidato, dello stesso colore. La prima delle tre suddivisioni è lo spazio principale dell’edificio: sviluppandosi a tutt’altezza rappresenta la vocazione pubblica dell’edificio, su cui si affacciano gli archivi da un lato e gli uffici dall’altro. La dilatazione dello spazio, in contrasto alla compressione dell’ingresso, è amplificata dalla presenza della gigantesca scala circolare in calcestruzzo armato dipinto di giallo e da due grandi finestre che la illuminano. La spirale, elemento libero ma iscritto esattamente nello spazio disponibile in pianta (occupandolo completamente) viene trattata come un enorme oggetto surrealista: il visitatore la percorre per salire agli uffici, avvicinandosi fino a sfiorare i livelli in cui sono custoditi gli archivi, completamente aperti e visibili ma a cui non può accedere.
La semplicità del layout della pianta dei tre livelli superiori consente un’organizzazione flessibile degli uffici dedicati alle associazioni: completamente trasparenti, sono divisi solamente da pareti in vetro.
L’ultimo livello, a cui la spirale accede forando il soffitto, è un grande spazio di co-working, in cui la luce zenitale è filtrata da grandi lucernari tondi: a questo livello il visitatore entra nel “layer” dell’archivio, in corrispondenza di una grande finestra quadrata che si affaccia sul parco. Questa, leggermente disassata rispetto al varco ricorrente, conferma l’impressione che si aveva dall’esterno: le aperture, grandi ma dalle proprozioni diverse, bucano la cortina muraria dove necessario, seguendo una logica interna, libere da necessità strutturali.
Nella descrizione del progetto gli architetti dichiarano che “la Casa della memoria è un monumento privo di molti precedenti”. Il nome “Casa”, fin troppo abusato in diversi contesti politici, porta automaticamente con sé un valore “istituzionale” per contrasto, ma l’edificio è un ibrido: “Non è un museo, non centro culturale vero, non realmente una biblioteca”. I progettisti si servono quindi di altre analogie tipologiche: “la casa della memoria è un archivio, un magazzino”.
Come le Kornhäuser delle città medievali tedesche, magazzini per il grano che garantiva il pubblico sostentamento e che per posizione e valore simbolico diventavano automaticamente icone cittadine. Oppure come i “Fondaci” o le “Scuole” della tradizione veneziana: edifici che ospitavano associazioni commerciali o dei mestieri, spesso dedite al mutuo soccorso dei lavoratori e delle loro famiglie. Edifici in cui l’immagazzinamento di beni e conoscenza erano fondamentali. La fascinazione di questa analogia ritorna anche come opportunità compositiva: l’elemento della scala ad esempio, che come nelle tipologie rinascimentali diviene un elemento di invenzione architettonica; oppure le facciate, spesso affrescate, quali proiezioni verso la città della filosofia e dell’etica dei gruppi sociali che vi interagivano.
Ma se nella repubblica veneta del XVI secolo i valori di cittadinanza e cultura erano accettati (o semplicemente imposti), nelle contraddizioni della città contemporanea non vi è una memoria completamente condivisa da poter “incidere nella pietra” (2), senza ulteriori questioni. Definire una condivisione diviene quindi un’operazione più complessa.
Fin dalla pubblicazione del bando l’idea politica alla base del concorso fu fortemente contestata e tacciata di pragmatismo amministrativo: raccogliere insieme in un grande incubatore associazioni e istituzioni molto diverse – l’Associazione Nazionale Ex Deportati (A.N.E.D.), l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (A.N.P.I.), l’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo (A.I.VI.TER.), l’Associazione Piazza Fontana 12 Dicembre 1969 e l’Istituto Nazionale di Studi sul Movimento di Liberazione d’Italia (I.N.S.M.L.I.) – in un paese dal passato nettamente polarizzato a livello politico, parve a molti una forzatura semplicistica, generica. Il progetto di Baukuh fa perno proprio su questa forzatura, dando a questa genericità paratattica di interlocutori diversi l’origine della complessità del progetto, della sua sfida intrinseca: da una parte unire e ottimizzare la gestione degli archivi e la loro conservazione – problema tristemente cronico in Italia – rendendo accessibili al pubblico testimonianze reali e vivide in spazi dedicati al confronto, non strumentalizzabili da connotazioni di parte. Dall’altra la ricerca di un senso di appartenenza, già evidente nelle tavole di concorso: la necessità di “agire per persuadere il pubblico” viene affrontata “con valori ludici da proporre come nuovi feticci sociali” (3). Ecco quindi che le facciate dell’edificio vengono decorate con foto dell’archivio, votate dai cittadini tramite la rete e selezionate da un “Comitato Scientifico” formato da membri delle Associazioni coinvolte e della municipalità. La possibilità di fissare dei punti comuni passa tramite l’open-source e la democrazia digitale: in maniera razionale e un po’ cinica i membri del collettivo sfruttano i limiti del manufatto architettonico, la sua immobile permanenza e pesantezza, combinandoli con la leggerezza del digitale: anziché condannare l’architettura alla tomba (come la stampa nella celebre la frase “Hèlas! dit-il, ceci tuera cela” (4) del Claude Frollo di Victor Hugo) ne sfruttano le prerogative per cristallizzare un messaggio. L’ operazione si risolve nel montaggio di immagini del passato, fissate codificando i mattoni della pelle esterna dell’edificio come i pixel delle immagini dell’archivio fotografico contenuto al suo interno: parafrasando la famosa tesi di McLuhan, “il medium è il messaggio”(5).
Il metodo progettuale e l’apparato teorico teorico sviluppato dallo studio Baukuh in questi ultimi 10 anni è di un rigore decisamente raro. Sistematizzato in quello che si potrebbe chiamare il loro “manifesto retroattivo” - “Due Saggi sull’Architettura (6)” (dove affrontano, in maniera critica, gli aspetti teorici del lavoro dei “maestri” Giorgio Grassi e Aldo Rossi) nonché affinato in numerosi dibattiti e pubblicazioni (tra cui la partecipazione del gruppo alla redazione di “San Rocco Magazine”) ha con la Casa della memoria - finalmente – una reificazione architettonica di un certo peso. Visitando l’edificio si riconoscono uno ad uno i temi teorizzati dal collettivo : l’uso delle citazioni, la “tecnica del montaggio” (ovvero copiare elementi architettonici dai contesti più disparati, dal passato alla contemporaneità, seconda della necessità) la reinterpretazione di tipologie classiche e tradizionali, il rifiuto verso qualsiasi gesto autoriale o autoreferenziale, il rapporto attento con il contesto…tutti temi dichiarati e ripetuti, come un mantra. Entrando nella Casa della Memoria, come in una sorta di piccolo “teatro della memoria”, l’impressione non è di entrare in uno spazio già visto ma in uno spazio che avrebbe potuto essere, altrove. Il risultato del montaggio è eccezionale, tanto da far nascere un sospetto: nel panorama della contemporanea affannosa ricerca dell’originalità in architettura, quest’atteggiamento di rinuncia e rigore potrebbe, alla lunga, risultare originale.
(1) baukuh was founded in 2004 and is now composed by Paolo Carpi, Silvia Lupi, Vittorio Pizzigoni, Giacomo Summa, Pier PaoloTamburelli and Andrea Zanderigo. baukuh is based in Milan and Genoa.
(2) “per ricordare più a lungo” come spiega il sacerdote egizio allo smemorato ateniese, il Solone del “Timeo” di Platone
(3) tratto da Manfredo Tafuri, Progetto e Utopia, Laterza 1973, capitolo 6 pag. 127 - nel rapporto tra arte contemporanea e architettura per la generazione del consenso.
(4) Victor Hugo, Notre Dame de Paris, trad. it. Chiara Lusignoli, Einaudi 1996.
(5) Marshall McLuhan, Understanding Media, The extension of Man, the new American library, New York 1964
(6) Baukuh, Two Essays on Architecture, Kommode, 2014