Una “casa-fortezza” nella “fungaia dei villini”

Nicola Navone

Penso all’opera di Flora Ruchat-Roncati come a un fitto dialogo, a due o più voci, che si distende nel tempo e nello spazio, dal Cantone Ticino a Roma e al meridione d’Italia, da Zurigo al Friuli e alla Carnia. Dialogo come attitudine, come manifestazione di un’istanza interiore che non viene meno e si alimenta di ogni nuova esperienza.
Da questo intreccio di voci vorrei isolare un frammento: la casa progettata per i suoceri, Paul e Marthe Ruchat (1966-1967), negli anni in cui Flora è associata ad Aurelio Galfetti e Ivo Trümpy, con i quali condivide la paternità dell’opera.
Costruita al margine del villaggio di Morbio Inferiore, laddove la campagna si stava mutando nella triste “fungaia dei villini”1 caratteristica dell’agglomerazione ticinese e lombarda, la casa per i coniugi Ruchat (oggi resa irriconoscibile da una successiva trasformazione) è una critica, in forma di progetto, alla dimora borghese (o piccolo-borghese) nel Ticino del boom economico. Una critica che aveva avuto una prima formulazione in Casa Rotalinti, opera di Aurelio Galfetti, capostipite di una serie di edifici, realizzati nel decennio successivo, che oppongono alla linea sinuosa del paesaggio subalpino la loro geometria elementare, animata da ombre nette e profonde. Edifici che non intendono “integrarsi nel sito”, bensì “costruirlo” (e l’espressione sarebbe presto diventata una sorta di slogan), costruendo anzitutto la percezione del paesaggio, la sua messa in scena attraverso calibrate promenades architecturales memori dell’insegnamento lecorbusiano per cui «un site ou un paysage n’existe que par le truchement des yeux».2
Ma al tempo stesso, Casa Ruchat è, per la sua autrice, un faticoso confronto con la memoria, poiché è la casa in cui i genitori di suo marito André, morto sei anni prima durante un volo militare, hanno deciso di ritirarsi per trascorrere gli ultimi anni della loro vita, il loro “tempo in eccesso”.3 Una “casa-fortezza, aperta verso il cielo”, che intesse con il vicino cimitero “il filo diretto che esclude il resto del mondo”4 e richiama, a una scala ridotta, per l’imbricazione degli spazi interni ed esterni, conclusa dalla poderosa linea orizzontale del tetto, la lecorbusiana Villa Shodhan: modello che non si manifesta in prima istanza (come è stato dimostrato dalla critica genetica dell’opera)5, ma viene sollecitato dalla dinamica interna al progetto, vale a dire dal desiderio di conseguire un volume prismatico scavato da logge e terrazze, le cui dimensioni richiamano le case ottocentesche della borghesia forese.
Villa Shodhan, tuttavia, non è la sola fonte lecorbusiana. Da Villa Savoye (di cui Casa Ruchat sarebbe, secondo la sua autrice, “una versione domestica”)6 viene desunto il dispositivo della scala (in luogo della rampa), prima interna e poi esterna, collocata in posizione baricentrica, e un rapporto con il paesaggio fondato su un’appropriazione visuale associata a un distacco fisico.7 Distacco che, in un primo tempo,8 assume le forme di una radicale introversione (poi mitigata nella versione approdata in cantiere), con la loggia a doppia altezza, fulcro dello spazio domestico, chiusa da un’alta parete che libera la vista soltanto ai lati e dalla terrazza all’ultimo piano. Una soluzione che, fatte salve le due incisioni laterali, ricorda il cortile-giardino nelle abitazioni dei monaci alla Certosa d’Ema, chiuso dall’alto muro oltre cui si traguarda verso il paesaggio lontano, esempio archetipico di quel «regard horizontal» celebrato da Le Corbusier.9 E la Certosa d’Ema non era soltanto, per Flora Ruchat-Roncati, un riferimento desunto dal maestro: era stata un’esperienza concreta vissuta pochi mesi prima d’iniziare il progetto per i suoceri, durante un breve viaggio in Toscana all’inizio del gennaio 1966.10
Se quest’ultima circostanza sembra confermare l’immagine (suggerita da altri indizi) di un architetto incline a riverberare nei propri progetti gli stimoli che le provengono dal vissuto, va osservato come Flora Ruchat-Roncati abbia sempre cercato di trascendere il dato autobiografico, soprattutto quando, come in questo caso, è intimamente legato alla propria vicenda personale. Incardinata tra i progetti firmati con Aurelio Galfetti e Ivo Trümpy per le Case dei bambini di Viganello e Riva San Vitale, e il loro comune capolavoro, il Bagno di Bellinzona, Casa Ruchat non è dunque, per la sua autrice, il “resoconto di un apprendistato”,11 come lo era stata per Galfetti Casa Rotalinti, ma il segno della raggiunta maturità.

Nicola Navone è vicedirettore dell’Archivio del Moderno e docente all’Accademia di architettura – USI.

1 Così Tita Carloni in un articolo apparso nel “Giornale del Popolo” del 2 marzo 1967.
2 Le Corbusier, Manière de penser l’urbanisme, Paris 1946, p. 85.
3 Ringrazio Anna Ruchat per avermi segnalato la poesia Ai miei nonni, da cui traggo questi versi. Di Anna Ruchat ricordo il volume Volo in ombra, Pesaro 2010 (trad. ted. Schattenflug, Limmat Verlag, Zürich 2012).
4 AdM, Fondo Flora Ruchat-Roncati, scritti di Flora Ruchat-Roncati, La Capanna di Adamo è in Paradiso, e quella di Eva?, dattiloscritto del 15 luglio 1993. Il testo è stato pubblicato, in versione ridotta, in “Controspazio”, 1996, n. 6, pp. 36-37.
5 Cfr. Nicola Navone, Dagli esordi al Bagno di Bellinzona. Congetture sull’architettura di Flora Ruchat-Roncati, in Serena Maffioletti, Nicola Navone, Carlo Toson (a cura di), Un dialogo ininterrotto. Studi su Flora Ruchat-Roncati, Padova (in corso di stampa, 2017).
6 AdM, Fondo Flora Ruchat-Roncati, scritti di Flora Ruchat-Roncati, La Capanna di Adamo è in Paradiso, e quella di Eva?, dattiloscritto del 15 luglio 1993, fol. 3.
7 Le Corbusier, Précisions sur un état présent de l’architecture et de l’urbanisme, Paris 1930, pp. 136-138.
8 AdM, Fondo Aurelio Galfetti, LG T20-2, elaborati grafici datati 13 giugno 1966.
9 Le Corbusier, Urbanisme, Paris 1924, p. 176.
10 AdM, Fondo Flora Ruchat-Roncati, scritti di Flora Ruchat-Roncati, appunti del gennaio 1966.
11 Martin Steinmann, La scuola ticinese all’uscita da scuola, in N. Navone, B. Reichlin (a cura di), Il Bagno di Bellinzona di Aurelio Galfetti, Flora Ruchat-Roncati, Ivo Trümpy, Mendrisio 2010, p. 39.

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