La magia del San Carlino

Mario Botta, Francesco Collotti

Francesco Collotti (FC): “Nachgefragt”: ritornare alle idee, ai progetti, agli edifici costruiti come occasione di riflessione sul nostro lavoro. Apprendere dall’esperienza? Tentiamo un bilancio? Partiamo dal generale, dalla città che sembra scomparsa, sostituita da oggetti autoreferenti, egoisti. Il tuo lavoro, al contrario, persegue una quasi arcaica resistenza della forma. Cominciamo da qui?

Mario Botta

(MB): Mi guardo attorno e parrebbe che siamo perdenti. Però, se osservo la storia dell'architettura, la storia anche aulica intendo, dal passato fino al Movimento Moderno constato che la città è elemento di riferimento costante. Non puoi pensare alla storia dell'architettura senza pensare alla storia della città. Il fatto architettonico è parte del contesto, non elemento autoreferenziale. Paghiamo in questi ultimi anni la fragilità della cultura del Moderno. E noi siamo in un certo senso figli di quel Movimento Moderno per il quale la città ha giocato un grande ruolo, non solo nel Bauhaus intendo, ma anche nei suoi epigoni. Nella nostra cultura cristiana occidentale come si fa a dimenticare la città?

Malgrado le periferie urbane e grandi contraddizioni, esiste il primato della città europea rispetto al modello americano o al modello asiatico. Le mode culturali che sostengono la scomparsa della città sono fragili ed effimere. Le mode.. oggi molto si parla di leggerezza. Ma la leggerezza in architettura è un non-senso. La forza del fatto architettonico sta nel modo in cui i carichi statici vengono trasmessi al suolo.

FC: L’architettura è – tra l’altro - l'arte di spostare i gravi, secondo Leon Battista Alberti.

MB: Esatto. E se tu levi questa forza di gravità al fatto architettonico, diventa una scultura, un mobil, diventa altro. Se perde questa forza di incidere nel suolo, nel riconoscere il territorio come parte del progetto, allora tutto diventa intercambiabile. Il fatto costruttivo è presa di possesso non solo dell’edificio, ma del suo intorno. Con un manufatto tu cambi le relazioni spaziali. Se tu sposti questo edificio di pochi metri, cambiano completamente i rapporti collettivi, che sono poi quelli che sorreggono il fatto architettonico.

FC: Ritorniamo ad alcuni tuoi progetti urbani in cui non ti “adegui”. Hai spesso proposto oggetti a reazione continua..

MB: L'architettura cambia la città, non è che si adegua alla città. Consolida vocazioni, diventando parte essa stessa della città. L’oggetto autoreferenziale è un non-senso anche dal punto di vista filosofico. Io non sono un teorico, ma mi sembra che ci sia qualcosa di contraddittorio in questa architettura di oggetti egoisti, mentre invece noi godiamo la città attraverso le relazioni spaziali.

FC: La mostra curata dal tuo studio al Mart di Rovereto si apre con una sezione fatta di emozioni e di incontri, un sorta di “libro degli amici”. A proposito di Louis Kahn scrivi di come “indagava un territorio di memoria”. La memoria è materiale da costruzione per il progetto?

MB: Kahn è stato l'ultimo dei grandi Maestri che possiamo far risalire al Movimento Moderno. Egli ha forse colto i limiti dello sviluppo tecnologico della società dei consumi e ha riportato il ragionamento alle origini dei problemi. La sua idea di “il passato come un amico” ha colto il mondo moderno ancora impreparato. Se Kahn fosse stato vivo a lungo culturalmente in America, dove lui ha trovato la sua nuova patria, non sarebbe nato il movimento postmoderno, che confonde gli stili con la storia: la cultura americana ha eliminato Kahn, dimenticato per far posto a Michael Graves e alla cultura della caricatura. Bisogno di storia, divenuto caricatura della storia: mi serve un passato? e allora metto un timpano, una colonna... E noi, cretini, noi veramente cretini, europei, a inseguire i modelli americani!

FC: Ripensando criticamente agli anni recenti hai affermato che “..più vi è accelerazione più siamo indotti a dimenticare”. È il bilancio della tua generazione rispetto alla globalizzazione?

MB: Il tema del territorio e della memoria sono centrali nella nostra cultura. La nostra generazione deve farsi carico di questo problema perché noi stiamo dimenticando rapidamente. Viviamo una pressione di trasformazioni che la generazione precedente, come quella dei Maestri del Movimento Moderno, non ha subito.

Riguardando a questi ultimi anni abbiamo il compito di rileggere in altri modi la storia, la memoria, il passato perché ci appartengono come indicano i grandi creativi. Tu non puoi considerare Picasso senza la sua arcaicità. Quest’epoca parla invece in termini di futuro.. chi lo sa cos'è il futuro? Noi non riusciamo neanche a sopportare le contraddizioni del presente e parliamo del futuro! Noi architetti abbiamo forse più doveri rispetto ad altre discipline, perché l'architettura dura, poco talvolta, ma qualche volta un giorno in più – basterebbe un giorno in più – della vita dell'architetto stesso. L’architettura ti mette nella condizione di testimoniare alle generazioni future: è un’attività che lavora sul ciclo solare, stagionale. La durata è ancora un valore del fatto architettonico.

FC: Che cosa è per i tuoi edifici questa che è stata chiamata “durata”? A Riva San Vitale, la tua casa a torre tiene ancora in modo straordinario la misura del paesaggio... tiene dopo più quarant’anni.. dunque, cos'è per te la durata?

MB: Io credo che la durata, oltre al fatto architettonico, è un fatto mentale. A me sorprende sempre quando, ancora oggi, chiedendo a cento persone dove pensano che vi sia una migliore qualità di vita, dove lo spazio dà una maggiore serenità, un maggior benessere, un maggior comfort, tutti ti rispondono: «nei centri storici italiani». Nessuno ti dice «nelle periferie olandesi», dove c'è l'aria condizionata, i parcheggi sotto il letto... No! Perché questo? Perché noi riconosciamo alle cittadine medio-piccole con una grande storia una migliore qualità di vita? Non è questione funzionale, non tecnica, non distributiva, non è neanche la qualità neanche dei materiali. Nel centro storico noi riconosciamo che non siamo soli e che abbiamo una memoria. La città ci parla dei popoli estinti. Paradossalmente noi viviamo meglio le città dei morti, la città pensata per rispondere ad altre necessità, dove noi però riconosciamo un plusvalore metaforico intuitivamente; la gente sente che non vive solo la sua contemporaneità. La città della gente vive anche il grande passato. Vive le lotte, gli amori, le dispute, le battaglie ideologiche. Nella città senti tutto. Hai una consapevolezza e ti senti parte dell'umanità. Questo è il territorio della memoria!

Tu non puoi costruire un pezzo solo di contemporaneità. Costruendo ti confronti inevitabilmente col già fatto, con le esperienze già vissute. Il territorio della memoria per noi architetti è il territorio vero sul quale lavoriamo, cioè il territorio fisico e quello geografico che tu trasformi. Ma dietro questo territorio geografico vi è una cultura, una storia, una memoria che ti appartiene e che tu interpreti.

FC: Ernesto Nathan Rogers parlava del resto di tradizione come energia delle mutazioni. Torniamo ai progetti: i tuoi teatri, macchine sceniche finalizzate al racconto di eventi che permettono all'uomo di collocarsi oltre la quotidianità; ma anche le biblioteche scrigni con le speranze delle generazioni che ci hanno preceduto, luoghi di idee presenze e messaggi sacrali oltre gli spazi temporali del nostro vivere. Sembrano scenari di una ritualità sacra anche se non necessariamente luogi religiosi...

MB: Io ho avuto il privilegio di occuparmi negli ultimi vent'anni dello spazio del sacro e ti dirò che, attraverso il sacro, ho trovato le ragioni profonde del fatto architettonico. Ecco l'idea della presa di possesso della terra, l'idea della luce, l'idea della soglia... Quando noi diciamo che uno spazio è sacro? Quando esclude il mondo ed è interno alla “ecclesia”: il ragionamento sul sacro non è così lontano dall'idea stessa del fatto architettonico. Riguardando il mio lavoro posso dire che ho trovato le ragioni più profonde dell'architettura nello spazio sacro. Ho fatto teatri e biblioteche, edifici complessi, macchinosi, ma lo spazio sacro resta sempre il più essenziale e rarefatto. C'è l'altare, come luogo del sacrificio, e il popolo dei fedeli; questo è durato duemila anni! Ecco lo spazio più assoluto che tu puoi trovare. Io ho detto una volta «se potessi costruirei solo chiese»: qualità dello spazio e della luce, della magia dei materiali, della memoria. Credo avesse osservato Rudolph Schwarz, che dentro a questi grandi spazi che noi architetti costruiamo, in realtà sentiamo i desideri dell'uomo e le sue aspirazioni.

Oggi a noi danno piccole cappelle da fare, ma pensa alle grandi chiese: si fanno per tramite di un discorso millenario, di un verbo che tocca l'umanità intiera. Quando noi facciamo anche una piccola cappella familiare per la devozione, sappiamo che non appartiene solo a quella famiglia, appartiene alla storia dell'umanità.

FC: Questo si ritrova in tutti gli spazi sacri? anche nella sinagoga?

MB: Sì, con una grande differenza però. Io ho capito facendo la sinagoga che è un luogo laico dove si fa lettura collettiva della Torah. Nella Torah c'è una parte di spiritualità collettiva, ma non un elemento sacrale diretto, che invece avviene nella comunicazione della chiesa cristiana, dove per il fedele si ha la trasformazione reale del corpo del Cristo, del pane nel corpo del Cristo. Il fedele vive in diretta l'evento originale. E questo mi ha molto colpito nella chiesa, cioè quello che avviene nell'altare e nella liturgia, poi trasformato nell'interpretazione del fedele: chi crede, vive l'atto originale (partecipi come nel teatro?). Penso che si debba saper entrare nelle parti e nell'interpretazione degli elementi. Quando ho fatto le prime chiese queste cose non le sapevo.

L'architettura porta con sé l'idea del sacro, perché trasforma il primo atto, che non è di mettere pietra su pietra, ma di mettere una pietra sulla terra. Per questa via trasformi una condizione di natura (dove c'era una vegetazione), in una condizione di cultura attraverso il lavoro dell'uomo.

FC: Agli architetti oggi il compito di salvare con la memoria una serie di tracce e segni? Come la tua arca di Noé. Non è forse che gli artisti esprimono meglio emozioni che l’architettura non sa più dire? Tu hai lavorato con Niki de Saint Phalle, con Vangi, con Cucchi. Gli artisti mostrano la strada in maniera quasi profetica?

MB: Sono d'accordo con te, nel senso che gli artisti, quando sono tali, hanno delle “antenne” che l'uomo normale non ha... hanno intuizioni che sembrano cogliere condizioni del collettivo e della vita che invece normalmente non son date. La controprova di questo è che quando noi andiamo nel museo scopriamo che oggi ha un ruolo molto simile a quello che aveva la cattedrale ieri: andiamo a interrogare gli artisti. Cioè, qual è la verità rispetto a questo caos del mondo? E gli artisti ci dicono.. “no, guarda che la verità è che il mondo è squartato; siamo dei macellai”... sentono condizioni che per loro sono più forti delle nostre e le esprimono. L'artista va guidato, in un certo senso, ha bisogno di una complicità, quando è bravo. Ma lui dopo ci viaggia e ti nutre anche. È bello sentire il nutrimento dell'artista. E questa è un'altra condizione che la cultura del Moderno ha perso. Pensa a che cosa ha costruito il Bauhaus, al ruolo della Avanguardie, al sogno del Totaltheater di Gropius per integrare le arti e poi noi.. Per difendere il nostro settore, abbiamo escluso invece il dono, il regalo che gli artisti potevano farci. Pensa a Fernand Leger e a che cose poteva dare all'architettura contemporanea, i suoi grandi mosaici, oppure pensa a Calder con i suoi mobiles.

FC: Ancora sul tuo lavoro, raccontandoti un’emozione che ho provato il giorno che ho visto il San Carlino di Borromini, tornato a casa sulla riva di questo lago, 1599-1999. Torniamo insieme oggi per Werk B+W a quell’esperienza..

MB: ...ti racconto com'è nato il San Carlino. San Carlino è nato da una frase di Carlo Dossi, che io ho letto nelle sue Note Azzurre. Questo scrittore comasco ha un'intuizione incredibile e dice che «Il carattere dominante di ogni architettura è dato dal contesto che colpisce l'occhio dell'artista». Fate attenzione, architetti! voi pensate di avere questa capacità di interpretazione anche espressiva, ma non è vero. La forza fondamentale del fatto architettonico non è dunque data dal linguaggio architettonico, ma dal luogo: le architetture del deserto sono determinate dal deserto, le architetture delle montagne sono determinate delle montagne, le architetture delle grandi praterie, pensa a Wright, sono determinate delle praterie.

Borromini parte da Bissone giovanissimo, probabilmente portato dal suo papà che lavora alla corte dei Borromei a Lainate come ingegnere di fontane. E’ alla scuola del Biffi a Milano all’opera del Duomo, poi subito a Roma chiamato da Carlo Maderno che era suo zio. Quando arriva a Roma Borromini è pagato dieci volte quello che normalmente è pagato un architetto. Vuol dire che aveva un talento... Perché a diciotto anni essere pagato dieci volte quello che sei pagato normalmente nel mercato vuol dire qualcosa, insomma. Allora il mio ragionamento è stato (sono quelle cose che fai in una notte): se lui parte giovanissimo da Bissone, porta la sua esperienza a Milano, poi a Roma, costruisce subito per i frati trinitari il San Carlino alle Quattro Fontane, porta le immagini che hanno colpito l'occhio dell'artista: porta l'immagine del lago di Lugano, porta l'immagine del Monte San Salvatore.. E allora facciamo un'operazione: prendiamo il suo capolavoro giovanile, lo spacchiamo in due, lo portiamo sul lago e vediamo che tipo di relazione c'è con le montagne.

Mi sono divertito molto... ma ho sofferto, anche ! Abbiamo fatto un lavoro enorme perchè abbiamo tracciato 36.000 piani! Ogni pezzo... è una tomografia non solo orizzontale: abbiamo dovuto disegnare tutti i pezzi per darli al falegname da ritagliare...

Abbiamo inseguito questa verifica: lì, dove lui è nato, cinque chilometri in linea d'aria, tiene o non tiene contro le montagne? Guarda che è perfetto... son partito da una mia intuizione, entrando nel suo lavoro, ma quel nostro San Carlino teneva! E penso a Borromini che ha visto il Monte Brè da piccolo, ha visto il piano d'acqua, si è portato con sé questo mondo straordinario. Ecco l'idea di com'è nato. Poi vi è un altro fatto, secondo me altrettanto interessante, che non era voluto e che ho trovato dopo: sai qual’è la magia del San Carlino? Da un lato vi è una vera e propria rappresentazione decontestualizzata della cupola e del cupolino di Roma, ma al contempo - se ci pensi bene – è l'opposto della rappresentazione perché è una realtà. Una realtà alta trentatré metri che si misura col fronte della città. Noi abbiamo fatto un'operazione che all'inizio non era consapevole. Quindi l'idea del San Carlino porta questa magia, di avere queste due realtà: della realtà di essere al contempo la realtà e anche la rappresentazione di questa realtà.

La mostra «Mario Botta, Architetture – Architectures 1960–2010» al Mart Rovereto, www.mart.trento.it, dura fino al 23. Januar 2011; martedì–domenica 10–18h, venerdì 10–21h, chiuso il lunedì

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