Qualcosa si muove a nordovest

Nelle valli piemontesi si trovano i primi segni di una rivalorizzazione del mondo alpino.

Maurizio Dematteis

«Rispetto al “mondo dei vinti” di Nuto Revelli oggi la montagna è peggiorata. Quella cultura sopravvive, e non puoi fare nulla se ti senti un vinto. E che ci lascino in pace! Che i soldi non ci servono! Metteteli da qualche altra parte. E forse tra 10 o 20 anni qualcosa potrà cambiare. Ma deve andare male giù perché la gente torni a vivere su».

Era l’inverno di una decina di anni fa quando Claudio Challier, gestore insieme alla moglie Anna Jahier del posto tappa Gta Pzit-rei di Ousseaux, a 1400 metri in alta Val Chisone, mi raccontava sconsolato del declino della sua terra. Claudio si ergeva a testimone di una doppia sconfitta: quella culturale del ’68 e quella territoriale dei reinsediamenti alpini degli anni ’70. Ma forse non si accorgeva, l’ex sessantottino, che qualcosa stava cambiando, nella sua valle come in quelle limitrofe. “Le cose giù” cominciavano ad andare davvero male, con l’inizio dell’espulsione dal mercato del lavoro di migliaia di persone nei centri urbani, l’aumento del costo della vita in città e la “carenza” crescente di verde e spazi sociali nei grossi agglomerati metropolitani.

Sono passati circa dieci anni dallo sfogo del gestore del Pzit-rei, e oggi nelle valli alpine del nordovest italiano, pesantemente interessate in passato al declino demografico, qualcosa sta cambiando. Laddove tra il 1981 e il 2000, come fotografava magistralmente una delle carte proposte da Werner Batzing (Werner Batzing, Le Alpi. Una regione unica all’interno dell’Europa, Bollati Borincghieri, 2005), la tendenza allo spopolamento cominciata cento anni prima, seppur attenuandosi, persisteva, tra il 2001 e il 2009, come si evince dalla carta realizzata da Alberto Di Gioia per una ricerca sui “nuovi abitanti” delle Alpi condotta dall’Associazione Dislivelli, la situazione è mutata. Oggi ci troviamo infatti di fronte ad una variazione di tendenza, dove, generalizzando, anche sulla base della ricerca sul campo condotta sempre dall’Associazione Dislivelli, possiamo dire che lo spopolamento viene sostituito da un “timido ripopolamento” dei territori alpini nel nordovest italiano. “L’indagine ha messo in evidenza che esiste un fenomeno di ‘nuovi abitanti’ della montagna - si legge nella presentazione del volume, frutto di tale ricerca, a cura di Giuseppe Dematteis, Montanari per scelta. Indizi di rinascita nella montagna piemontese, Dislivelli-Franco Angeli, 2011, che esce a settembre - capace in certe situazioni di rallentare, compensare o addirittura invertire le dinamiche di spopolamento. È vero che in Piemonte, se si escludono certi sbocchi vallivi, i numeri sono per ora piccoli (specie se paragonati a quelli delle vicine Alpi francesi), tuttavia è tale da far prevedere una loro crescita nei prossimi anni, specie se sarà accompagnata da interventi che rendano le condizioni di contesto della montagna paragonabili a quelle del resto del territorio regionale”.

Ma quali sono le realtà “capaci di rallentare, compensare” o addirittura a volte “invertire le dinamiche di spopolamento”?

Miracolo ad Ostana: il ruolo della politica

Ostana è un piccolo comune della Valle Po, situato a 1500 metri sul livello del mare, proprio di fronte al Monviso, il simbolo delle montagne occidentali italiane. A fine ‘800 contava oltre 1400 residenti, dediti ad attività agricole, zootecniche e artigiane. Ma interessato anche lui dal “terremoto dell’industrializzazione che negli anni sessanta” ha causato “l’esodo che si è trasformato in valanga”, per usare le parole di Nuto Revelli (Nuto Revelli, Il mondo dei vinti, Giulio Einaudi editore, Torino, 1977), nel 1985 contava solo più cinque persone anziane. «Abbiamo fatto una lista civica forte e abbiamo vinto le elezioni comunali di quell’anno, il 1985 – racconta il sindaco Giacomo Lombardo -. La domanda che ci siamo posti è “quale futuro per il paese?”». Non nasconde la soddisfazione il primo cittadino, mentre mi mostra l’incremento del 10% dei residenti tra il 2010 e il 2011: Ostana oggi sfonda quota 90 residenti. Di cui sei bambini, a dare un messaggio di speranza per il futuro.

«Partivamo da un patrimonio importante – continua Lombardo -: l’integrità del comune dal punto di vista ambientale e architettonico. E abbiamo deciso di lavorare su quello. E’ stato un lavoro lungo ma oggi la gente ci crede».

Grazie all’apporto del Politecnico di Torino, e di profondi conoscitori della realtà alpina, Ostana ha cambiato faccia: un ingresso al paese ridisegnato con materiali a basso impatto architettonico, un rifugio-albergo comunale utilizzato come centro di aggregazione, una palestra di roccia, un centro benessere autosufficiente dal punto di vista energetico, due centraline idroelettriche sulle captazioni dell’acquedotto e tanto altro ancora.

Una trasformazione fisica che comincia a richiamare persone disposte a spendersi all’interno della comunità: agricoltori, albergatori, ma anche studi informatici e consulenti aziendali attratti dalle possibilità offerte dalla rete a banda larga.

Gestalp: quando la società civile si organizza

Passiamo nella valle a fianco, la Valle Varaita, strorica via di comunicazione con la Francia attraverso il Colle dell’Agnello. Anche qui ci troviamo di fronte a una realtà locale economica, ambientale e culturale che negli ultimi 40 anni ha subito un lento declino, maa forte di una società civile propositiva cresciuta negli ultimi quindici anni. Come la Fondazione Cerigefas, promossa dall'Università degli studi di Torino, che lavora alla promozione dell'interesse pubblico e scientifico-applicativo nel settore gestione e conservazione della fauna selvatica. Fondazione che si è fatta promotrice del progetto “Laboratorio naturale Gestalp”. «Siamo partiti dalla considerazione che in ambiente alpino sono presenti alcuni problemi ma anche grosse possibilità - spiega Andrea Dematteis, responsabile della Fondazione -. Prima di tutto le risorse primarie». Acqua, legno, erba e animali (selvatici e domestici). Quattro risorse capitali che, rinnovandosi perennemente, hanno consentito all’uomo di sviluppare una società alpina avanzata. «Abbiamo semplicemente lavorato a un progetto di gestione efficiente di queste risorse», continua Andrea Dematteis. E mano a mano che il progetto prendeva forma, alla Fondazione si univano le associazioni di categoria dei gestori di boschi, pascoli, allevatori, agricoltori. E poi comuni, comunità Montana e infine l’interessamento della Regione Piemonte. Con un meccanismo top-down cresciuto mano mano con effetto snowball.

«Il nostro porgetto parte da una prerogativa irrinunciabile – tiene a sottolineare Andrea Dematteis -: una gestione a forte connotazione sociale. Cioè modelli in grado di produrre economia e occupazione, migliorare la qualità di vita della comunità residente e aprirsi a un proficuo scambio paritario con le realtà socio-economiche dell’area circostante. La sfida è riuscire a fare tutto questo senza intaccare la biodiversità e il paesaggio, ma, al contrario, cercando di salvaguardare e valorizzare entrambi gli aspetti, anche a beneficio di altri comparti, come quello turistico».

Celle Macra: l’università a servizio del territorio

Celle Macra, Valle Maira, Provincia di Cuneo, 1300 metri di altitudine, 18 borgate sparse su una superficie di 30 chilometri quadrati. Salendo i tornanti della strada verso il municipio si fatica ormai a leggere la storia passata di una comunità che ancora negli anni ’50 contava 1500 residenti, e oggi ne ha poco più di 50: «Assistiamo alla sparizione di almeno l’1% di superficie a prato ogni anno – spiega Marco Cucchietti, sindaco del commune –. Il bosco negli ultimi 10 anni ha preso ettari ed ettari di superficie da sfalcio». Il primo cittadino per reagire a tutto questo ha contattato il professor Andrea Cavallero, della Facolta di Agraria dell’Università di Torino: «A questo si può reagire con un semplice strumento – spiega il professore –: l’associazione fondiaria». Si tratta di una libera associazioni tra proprietari terrieri, dove, nel caso italiano, il comune si farebbe garante nei confronti dei vari proprietari per recuperare e utilizzare al meglio le proprietà oggi abbandonate o mal utilizzate, creando un’unica unità territoriale sufficientemente ampia da poter essere utilizzata da un pastore. «L’elemento di forza dell’associazione – continua Cavallero - è l’obbligo delle amministrazioni comunali di imporre la gestione dei terreni per mantenere il decoro del paesaggio e garantire la sicurezza del paese che può derivare dall’incuria del territorio. E nei confronti dei terreni di cui i proprietari non manifestano la loro titolarità il comune provvede a gestirne nel modo migliore la superficie, facendosi garante che nessuno possa usucapirne la proprietà».

In Italia per ora non ci sono altri esempi del genere. E quello di Celle Macra, appena partito, si candida a diventare un progetto pilota nel nostro paese.

Mamma li turchi: nuovi abitanti delle Alpi non europei

«Sono arrivato a Barge dalla Cina cinque anni fa. Oggi ho 17 anni e lavoro nel laboratorio tessile di mio fratello maggiore». Chen Rongyong, originario del villaggio di Yuhu, nei pressi di Wenzhou, Provincia dello Zijang, oggi lavora dalle 12 alle 15 ore al giorno nel laboratorio di famiglia, in Val Pellice. Il padre è arrivato a Barge con il fratello maggiore Rongqian nel 1998 per lavorare in una cava di pietra. Dopo tre anni è arrivata la mamma, poi la sorella maggiore e infine, nel 2003, Rongyong. «Sono contento della scelta che ho fatto - spiega il ragazzo -. Qui ho trovato buoni amici, e penso che rimarro a vivere in Italia».

Chen Rongyong è uno dei tredici immigrati di altrettante comunità straniere nelle valli alpine del nordovest italiano da me incontrati (Maurizio Deamtteis, Mamma li turchi. Le comunità straniere delle Alpi si raccontano, Chambra d’Oc edizioni, 2010). Testimoni di una “nuova immigrazione” da paesi non Ue, partita una decina di anni fa, con alcune caratteristiche comuni: sono giovani, lavoratori, spesso con coniuge e figli che vivono nei piccoli paesi di media e bassa valle nei territori delle comunità montane del nordovest italiano. Si tratta di un fenomeno in espansione, che a causa dei bassi costi abitativi e di nuove opportunità lavorative, vede questi “neo abitanti” abbandonare la città per trasferirsi in montagna. «Se si viene a formare una nicchia ecologica – spiega Francesco Ciafaloni, ricercatore dell’Istututo Ires Cgil, che mi ha aiutato nella pianificazione del lavoro -, in cui si può vivere, lavorare e magari riattarsi una casa a poco prezzo, allora gli immigrati arrivano. Ma cosa capita poi in provincia con i nuovi arrivi è una cosa che bisogna andare a scoprire sul posto. Perché per cercare di indovinare il futuro bisogna tenere un occhio al mondo e andare a parlare con quelli che ci stanno».

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